Che la
line-up del TOdays avesse quest'anno una quota di novità più alta del solito non era un mistero per nessuno. Scelta sacrosanta, considerata la missione principale del festival, ovvero quella di "offrire spazio ad artisti che diversamente non avrebbero diritto di cittadinanza a Torino" (cito dal sito web). Al massimo, ci si poteva interrogare sul fatto che alcune di queste novità rappresentassero un accostamento azzardato nel programma di un festival che si è costruito una solida reputazione prevalentemente dalle parti della contaminazione rock, ma si trattava comunque di chiacchiere da bar, un
pour parler tra addetti ai lavori che non poteva prescindere dalla sperimentazione sul campo.
Oggi, a
kermesse terminata, possiamo dire che la visione di
Gianluca Gozzi (al settimo anno di direzione artistica) è stata ancora in grado di portare i risultati sperati in termini di partecipazione, e questo non è proprio scontato quando si parla di
boutique festival, un evento che per definizione non intende mirare alle decine di migliaia di paganti, ma a un pubblico più limitato che vuole vivere un’esperienza meno massificata e di maggior qualità.
Sappiamo bene che il progetto TOdays non si basa soltanto sulla fredda contabilità, essendo nato con l'intento di fornire anche una risposta di tipo culturale al disagio urbano di un quartiere come Barriera di Milano, ma avere il conforto dei numeri permette di discutere con maggiore autorevolezza al tavolo delle istituzioni le edizioni successive.
Come OndaRock, ci siamo presentati al TOdays anche quest'anno in qualità di
mediapartner, seguendo l'evento attraverso gli occhialetti di due redattori.
Quella che leggerete ora è la cronistoria delle nostre impressioni (nell'ordine, le mie e quelle di Francesco Pandini), ovviamente non sempre coincidenti, ma che speriamo sufficienti a restituire i suoni e i colori transitati dal Parco Sempione di via Cigna in questi tre giorni di fine estate. Mettetevi comodi.
(Foto di
Paolo Pavan)
I MIEI HIGHLIGHT
Black Country, New RoadDopo due defezioni consecutive sulla piazza di Torino (
TOdays 2021 e Circolo della Musica), attendo l'ormai sestetto londinese anche per fotografarne la traiettoria artistica a seguito della recente separazione da Isaac Wood, voce principale e chitarra nei due lavori discografici fin qui pubblicati per Ninja Tune. I ragazzi hanno detto fin da subito che senza Wood eseguiranno solo materiale totalmente inedito, e quindi potete immaginare la mia curiosità.
Passata la sensazione di trovarsi di fronte al saggio scolastico di fine anno (quest'anno al TOdays i tormentoni che vanno per la maggiore sono i commenti sull'abbigliamento e la poca presenza scenica dei giovani artisti, quasi sempre ritenuti inadatti per un palco importante, con tutto quell'eccesso di pantaloni corti e cappellini - come se l'
understatement delle nuove generazioni non fosse anch'esso una parte del loro modo di dire le cose), è facile ritrovare buona parte di quello che mi è sempre piaciuto di loro, ovvero la capacità di mescolare la consueta pletora di riferimenti pur restando saldamente aggrappati a un'atmosfera che a me ricorda la
Penguin Cafè Orchestra sotto steroidi
post-rock.
Con le parti vocali equamente suddivise tra Tyler Hyde (basso), Lewis Evans (sax) e May Kershaw (tastiere), la combo guadagna sfumature che si distinguono per una maggiore leggerezza, ma sempre ben lontane dalla superficialità. La componente femminile è ora a tratti espressivamente preponderante nella band, sebbene paritaria in termini numerici rispetto a quella maschile, e questo fa del bene a un progetto che resta ancora parzialmente parcheggiato nel limbo del
work-in-progress ma che ha tutte le carte in regola per uscirne con eleganza.
![Tyler Hyde, Black Country, New Road Tyler Hyde, Black Country, New Road](/ADMIN/upload_file/img_nl/todays_bcnr_600_600.jpg)
Tamburi NeriLa vera sorpresa del TOdays, almeno per quanto mi riguarda, dal momento che sapevo ben poco di loro. Il duo romano, formatosi nel 2017, atterra all'ex Incet nella tarda serata del primo giorno di festival con l'intento di condensare la lucida follia poetica (a tratti piuttosto
sui generis) di Andrea Barbieri e l'oscurità elettronica delle trame di Claudio Brioschi, mix già contagioso su disco, grazie a strutture e atmosfere che sembrano declinare una versione tribal/electro del
Bristol sound à-la Massive Attack, ma ancora più esplosivo nel piccolo
dancefloor dell'ex Incet, grazie a derive techno che rendono ulteriormente distopici i testi di Barbieri (qui però penalizzati a livello di volume). Due esperienze distinte ma parimenti affascinanti, che mostrano anche l'invidiabile coerenza di fondo del progetto.
SquidProbabilmente il set che ha convinto di più tutti, dagli addetti ai lavori al nutrito manipolo di
aficionados pronti a riesumare per l'occasione le consuetudini del pogo. Posizionati all'inizio del programma della seconda giornata, i cinque giovanotti di Brighton accasati presso la Warp mettono in scena il loro convincente ibrido di
kraut-rock ipercinetico, obliquità chitarristiche e
vocals isterici (del cantante/batterista Ollie Judge), dal vivo ancor più distante dai riferimenti
post-punk ai quali vengono solitamente associati. Un set compatto, che trova il suo climax nei quasi dieci minuti di "Pamphlets", vero e proprio carro armato sonico estratto dall'esordio "
Bright Green Field", grazie al quale si scatena una vera e propria nuvola di polvere sotto palco.
Arab StrapVedere Aidan Moffat e Malcolm Middleton esibirsi insieme alla band come primo
act della domenica, quindi ancora con la luce del giorno, mi fa la stessa impressione di quando al mattino incontri qualcuno che tende a fare le ore piccole e non dovrebbe essere lì in quel momento. Ma l'emozione è più forte, perché stiamo parlando del gruppo che l'anno scorso (dopo ben sedici anni di silenzio), ha tirato fuori uno dei miei dischi dell'anno, quel
"As Days Get Dark" come prevedibile piuttosto saccheggiato nella scaletta, a cominciare dall'
opener "The Turning Of Our Bones".
La resa dei brani non perde per strada nulla della forza evocativa di un progetto che da sempre cristallizza pathos, disillusione e desiderio nella scia di un electro-post-rock al contempo ruvido e sensuale. Moffat scandisce i testi raccontando la sua vita ogni volta come se fosse l’ultima, mentre Middleton resta a lato dispensando arpeggi di luminosa bellezza a tratti morbosamente distorta. C'è spazio anche per le tracce del passato che, pur brillando per maggior fisicità, si incastrano comunque alla perfezione nel nuovo corso della
combo scozzese. La conclusiva "The First Big Weekend" sta lì a chiudere idealmente il cerchio. Brividi.
MENZIONI SPECIALI
Molchat DomaSi affacciano sul palco del TOdays durante una vera e propria tempesta di fulmini che rende il momento indiscutibilmente drammatico. Niente di meglio per fomentare le oscure trame
darkwave del trio bielorusso venuto alla ribalta dopo un irresistibile passaparola social. Proposta notoriamente derivativa (con riferimenti principali i
Joy Division di
"Closer" e i
Clan Of Xymox) ma perfetta per rappresentare la quota
goth del pubblico presente (alla quale viene anche regalata una citazione da "A Forest" dei
Cure) e in ogni caso piuttosto efficace. Soprattutto sotto la pioggia.
DIIVNon seguo sempre le vicende di band che si riconoscono nelle coordinate
shoegaze, ma difficilmente mi perdo i loro show quando ne ho l'opportunità, soprattutto qui al TOdays. I newyorkesi DIIV in questo senso rappresentano una bella variazione sul tema, perché, pur restando nell'alveo del genere, riescono a offrirne una versione muscolare sopra la media. Come ovvio, sono le chitarre a farla da padrone, e il muro di suono impressiona per pulizia e coesione, nonostante un inizio lievemente sottotono a livello di volume. Scaletta per metà ipotecata dai brani dell'ultimo
"Deceiver" (2019), entusiasmante nell'esecuzione e nella resa vocale di Zachary Cole Smith e Colin Caulfield, sepolta (come si conviene in questi casi) dai loro stessi amplificatori.
Yard ActJames Smith e suoi compari da Leeds sono una delle
new sensation del 2022 e arrivano qui per la loro unica data italiana (come Squid e Molchat Doma). Il loro recente esordio a trazione post-punk, che su disco non mi aveva impressionato particolarmente, risulta invece esplosivo fin da subito in questo contesto, e l'incredibile
flow di Smith riesce anche a tratti a staccarsi dal suo naturale modello di riferimento (un
Mark E. con lo stesso cognome).
I brani di "The Overload" scaldano i presenti a dovere, compreso un bambino sulle spalle del papà (con le cuffie a protezione dell'udito) che risulterà poi fotografatissimo e, nonostante una certa sensazione generale di ripetitività della proposta, convincono anche i più a ballare. Non guasterebbe se James provasse a ridurre i lunghi e frenetici (seppur simpatici) aneddoti raccontati in inglese tra un pezzo e un altro di fronte a un pubblico che parla un'altra lingua.
![Luis Borlase, Squid Luis Borlase, Squid](/ADMIN/upload_file/img_nl/todays_sq_600_600.jpg)
DIETRO LA LAVAGNA
Tash Sultana
Capisco che l'artista australiana abbia dalla sua un numero davvero importante di ascolti in streaming a livello mondiale, e che molta gente sia venuta per vedere lei appositamente, ma nel 2022 un set interamente giocato sul vecchio trucco della multistrumentista che campiona loop e poi spinge sul togli/metti per creare un arrangiamento, anche no. Al di là della performance in sé, che può essere interessante dal punto di vista meramente tecnico/atletico (Sultana salta come una molla da un lato all'altro del palco in corrispondenza degli switch della loop station), l'effetto sorpresa (se mai ce ne possa essere uno) si esaurisce al terzo pezzo della serata. Terzo pezzo peraltro uguale al primo.
FKJComincia pericolosamente come Tash Sultana, con la tecnica del multistrumentista che campiona cose, e poi passa a un più innocuo (ma almeno suonato con il resto della band) cocktail jazz
à-la Radio Montecarlo. Niente di personale, ma questo genere di intrattenimento mi porta direttamente al bancone del bar a bere. E l'impressione finale è che abbia suonato tre ore.
Primal ScreamAttesi come il messia qui a Torino sull'onda della promessa di suonare tutto
"Screamadelica", salgono sul palco sotto l'egida dell'
outfit di
Bobby Gillespie, che di quell'album è la copertina in 3D. "Tutto confermato", uno pensa. E invece no. La scaletta è quella di sempre, e copre l'intero repertorio della storica band di Glasgow, con una leggera predilezione per gli estratti da "XTRMNTR". "Screamadelica" appare in forma di due
song, le imprescindibili "Movin' On Up" (con i cori campionati) e "Loaded" nell'
encore (che ha un po' l'aria di essere eseguita per contratto), lasciando spazio alla sensazione di essere stati tutti oggetto di un clamoroso
misunderstanding di massa.
Ma Gillespie sembra decisamente a suo agio nei panni del cerimoniere
bluesedelic-rock e brandisce le maracas con una
nonchalance che evoca il cortocircuito
Jagger/Sympathy For The Devil già a cominciare dall'iniziale "Swastika Eyes". Sembra anche poco toccato dal fatto di indossare un vestito che dice l'opposto di quello che sta accadendo, ma tant'è. A complicare le cose, soprattutto per quanto riguarda il mio passato da fonico, c'è l'audio in uscita dall'impianto
PA, probabilmente il peggiore che mi sia mai capitato di sentire al TOdays: a metà del prato, l'equilibrio tra i suoni sembra lasciato al caso, con una chitarra elettrica monosuono che imperversa piuttosto sgraziata e tagliente, e una batteria a cui non sono stati messi i panoramici.
Francesco, a cui lascio ora la parola, era nelle prime file e giura che il suono là fosse perfetto. Ci penserà lui a restituirvi una recensione del live dei Primal più clemente di questa.
(Paolo Ciro)
SO THAT WAS THE LAST BIG WEEKEND OF THE SUMMER
(un report di Francesco Pandini)
VENERDÌ
Un generico power-pop anni Settanta, come l’avrebbe suonato un gruppo
nineties arruolato per una comparsata in qualche
dramedy pomeridiano. Si presenta così, il Todays di quest’anno, con il sole stampato in faccia di Eli Smart e della sua band, tutta armonizzazioni vocali e facili melodie, scelta all’ultimo istante dall’organizzazione per sostituire i ben più blasonati
Geese; qualcosa che non disturba mentre ci si avvicina al palco, intrattiene e a tratti fa battere il piede. Un buon aperitivo per quanto verrà, insomma: ma io sono astemio.
Il primo carico di un certo peso arriva subito dopo. È un piacere poter assistere finalmente a un’esibizione degli
Hurray For The Riff Raff, che aspettavo alla prova del palco almeno dalla pubblicazione di
"The Navigator", ormai vecchio di cinque anni; oggi, Alynda Segarra e i suoi si concentrano sul recente "Life On Earth", altro lavoro di buona fattura - uno strano ibrido fra pop intimista e spirito da stadio, analogico e sintetico, a sostenere testi politicamente densi. Dopo un inizio dai suoni incerti, il concerto decolla in una sezione centrale in cui Segarra - chitarra a tracolla - sposta il baricentro del
sound verso un indie-rock cantautorale, dalle parti di
Katie Crutchfield (la bella "Rhododendron"), senza scordare il dettaglio -
riff di vero buon gusto, la batteria che batte sentieri non scontati. È il finale a concentrare i brividi maggiori, con la
torch song ambientalista che dà il titolo all’ultimo album e "Rosemary Tears". È qui che la verve delle interpretazioni mostra quanto la resistenza di Hurray For The Riff Raff non sia mero invito a sopravvivere, ma richiesta esplicita di ciò che le spetta. È suo, l’aspetta.
Quel che segue è l’inatteso: tocca ai
Black Country, New Road, la più significativa fra le band contemporanee di ventenni che ancora godano a far deragliare chitarre - insieme ai
Black Midi, perlomeno. Trovo il loro
"Ants From Up There" un disco d’ambito indie-rock difficilmente superabile, nel 2022, per intensità delle composizioni e personalità delle esecuzioni: l’abbandono del
vocalist e chitarrista Isaac Wood appena dopo l’uscita del disco, però, ha gettato un’ombra cupa sul futuro di un’orchestrina evidentemente talentuosissima.
Non avevo idea di cosa attendermi da questo concerto, ma di certo non immaginavo un simile coraggio: fuori Wood, dall’impianto sonico dell’
ensemble sembrano spariti anche tutti i riferimenti al Midwestern Emo e al post-rock classicamente inteso. Invece di insistere su una versione slavata di un passato prossimo non più replicabile, i Black Country, solo qualche mese dopo un terremoto, portano sul palco un ciclo di canzoni completo, accostabile al
musical, alla cameristica e perfino al balletto, per il modo in cui - in mancanza di una vera voce solista - ogni strumento sembra aggiungere un umore, un colore e un tono a una conversazione collettiva. C’è, per tutta la durata dello spettacolo, un senso di pienezza, di gioia e di scoperta che non fa mistero delle incertezze sulla strada da intraprendere ma che si butta a capofitto nell’ignoto armato solo di un’incrollabile fiducia nel potere dell’insieme. E svela anche personalità singole di grande valore - Tyler Hyde al basso e nuovo fulcro del progetto; May Kershaw alle tastiere, che regala una meraviglia di pezzo tra
Julia Holter e
Joanna Newsom, con il resto del gruppo seduto a guardarla, incantato quanto me; il batterista Charlie Wayne, che non accompagna ma sbuffa, commenta, ridacchia, vortica. Un live delicato, bellissimo, inclassificabile: come dovrebbe sempre essere.
Non posso purtroppo dire lo stesso dell’
headliner della prima serata allo Spazio 211, Tash Sultana. Per mezz’ora, prima di spostarmi altrove, assisto a una dimostrazione di talento strumentistico e atletico, qualcosa che ha più a che fare con la ginnastica che con l’arte. La perizia tecnica è innegabile, l’uso delle
loop station ammirevole, ma manca una cosa ben più profonda: il senso di un’espressione artistica personale e sincera. Tash Sultana ha visto e sentito ogni cosa e sa riprodurla al millimetro, ma non sembra saper bene che farci - se non, naturalmente, far ondeggiare pigramente teste intorpidite da un reggae scolastico o indurle all’
headbanging con delle accelerazioni in cassa dritta.
L’effetto, portato fuori dal web che ha rivelato al mondo l’artista, è quello di un infinito
tutorial che non trasmette alcuna emozione. Almeno a me, sia chiaro: diverse centinaia di persone, felicemente assiepate, potrebbero sostenere con forza il contrario. A me viene solo in mente una vecchia recensione di Robert Christgau, che, parlando dei Blind Melon, chiosava così: "A quarter-century down the line, that's what bizzers call progress - chops, and MTV";
mutatis mutandis, lo stesso discorso può applicarsi a Tash Sultana: basta sostituire quelle due parole con "loops" e "YouTube".
![Molchat Doma Molchat Doma](/ADMIN/upload_file/img_nl/todays_md_600_600.jpg)
Meglio, molto meglio vanno le cose all’ex Incet, storica sede della sezione più
club-oriented del Todays, recuperata a tre anni di distanza dall’ultima volta, sebbene in versione più contenuta. E sarà pure durato poco più di una mezz’ora, il live di Tamburi Neri - progetto di Andrea Barbieri (sussurri e deliri) e Claudio Brioschi (battiti e clangori) - ma è una mezz’ora che vale oro. Una materia aliena, che pulsa assonnata come il dub e ritma a tempo di techno in ralenti - è un attimo, e ti trovi in un remix narcotizzato di
"Firestarter" o "Closer" - e su cui si stendono le parole di Barbieri, timbro inquietante che s’intrufola nei padiglioni auricolari e poi più in profondità, fino ad accendere le sinapsi. Sono quelle parole, che a volte sfuggono ma che - pure percepite a spizzichi e bocconi - evocano un mondo intero, a conferire al tutto un originalissimo afflato occulto. Tanto che, in prima battuta, si potrebbe avere l’impressione di una semplice sequenza di profezie di sventura come tante altre, e invece no: sono solo, forse, una nuova forma di speranza per un’umanità costretta a vivere nel sottosuolo. Una specie di invito a imparare di nuovo a orientarsi con le stelle.
Mi è difficile concentrarmi su altro, poi: a malincuore abbandono il dj-set di Adiel dopo un paio di pezzi, peraltro di notevole impatto fisico. Sarà di certo per un’altra volta, una promessa che faccio a me stesso.
SABATO
Non vedevo un viso deformarsi in simili smorfie nel canto dai tempi di certi video di
Andy Partridge o
Joe Jackson; non sentivo un batterista cantare in modo tanto animalesco dalla quasi-
reunion dei
This Heat, da quando Charles Hayward accartocciava "Makeshift Swahili" su un palco del
Primavera Sound - il tutto senza perdere un colpo, va da sé. Ollie Judge, appropriatamente al centro dello
stage, è il cuore pulsante e la macchina ritmica del formidabile spettacolo degli
Squid in apertura di seconda giornata. Il loro "
Bright Green Field" è stato decisamente una delle nuove sensazioni del post-punk 2021, e la riproposizione dal vivo non fa che esaltarne le doti migliori: una certa propensione all’intrico strumentale - menzione d’onore per il chitarrista mancino Louis Borlase - che trasforma le composizioni in labirinti capaci di stendersi per minuti senza perdere in stamina; una passione manifesta per dissonanze
no wave e un funk agghiacciato
à-la Swans. Sarcastici e pieni di tic, rabbiosi e precisi al millimetro, i ragazzi di Brighton inducono applausi automatici e scatenano un gran pogo, come al Todays ne mancavano da anni - chi c’era, ricorderà il polverone su "Rattlesnake" con i
King Gizzard & The Lizard Wizard. Ci voleva proprio.
Peccato che le Los Bitchos abbassino l’asticella dell’ambizione e non mantengano le promesse coloratissime dell’
outfit e delle buone parole spese da alcuni addetti ai lavori per l’album d’esordio "Let The Festivities Begin!", prodotto da
Alex Kapranos. Singolare quartetto strumentale di provenienza disparata - Inghilterra, Australia, Svezia, Uruguay - le Los Bitchos giocano con i generi: funk,
disco, pop, psichedelia, cumbia, surf, naturalmente rock. La leggerezza del disco, brezzolina
Jonathan Richman trascurabile ma pur sempre piacevole e festaiola, si perde però nel live: l’impatto è troppo virato verso il rock chitarristico e finisce per incastrare l’aspetto giocoso della band in maglie rigide e inadatte, quando invece elasticità e un pizzico di reale urgenza - chiedere nervosismo a queste quattro sembra eccessivo - aiuterebbero a rendere lo spettacolo qualcosa più dello scherzo tirato per le lunghe che finisce per sembrare.
Viceversa, in un saliscendi qualitativo ed emozionale, i bielorussi Molchat Doma - attesi ben oltre la qualità della propria proposta - offrono una
performance di prim’ordine. D’accordo, sono la copia della copia della copia, un falso storico
synth post-punk in cui
Ian Curtis canta con i
New Order senza dimenticare i
Depeche Mode - e nemmeno l’ironia, visto che a un certo punto parte pure l’
intro di "A Forest". Ma c’è decisamente qualcosa di più, in gioco, questa sera: merito della compattezza del suono; merito della presenza scenica del trio, che deve molto anche al
metal - ecco il dettaglio con cui i Molchat Doma dimostrano di essere più giovani della musica che suonano: hanno preso gli Ottanta tutti insieme, senza distinzione; merito, infine, di una tempesta che minaccia di abbattersi più volte sul pubblico e poi lo fa davvero, tra tuoni e fulmini che contornano il palco alla maniera della copertina di
"Ride The Lightning".
Derivativi ma iper-focalizzati, i Molchat Doma dimostrano che anche senza particolare originalità ma con passione e applicazione si può inscenare uno spettacolo di qualità, capace per alcuni tratti di indurre addirittura un certo rapimento estatico.
![Aidan Moffat, Arab Strap Aidan Moffat, Arab Strap](/ADMIN/upload_file/img_nl/todays_as_600_600.jpg)
In chiusura, FKJ. Acronimo di French Kiwi Juice, nome d’arte di Vincent Fenton, il polistrumentista francese è una nuova bolla da centinaia di milioni di streaming di cui non avevo idea - e se vi pare una moneta da poco, sappiate che è quasi l’unica che esiste ancora sul mercato della musica incisa: se vi manca il baratto, non posso biasimarvi. Ancora una volta, decisamente non la mia tazza di tè: però, a differenza di quello di Tash Sultana, con cui Fenton non condivide nulla se non l’uso di loop, questo live è decisamente più raffinato e offre un easy listening che vanta se non altro una visione. Sul bel palco allestito a salotto - con tanto di divani e abat-jour - il musicista si muove con sicurezza alternando chitarra, piano e sax in una sampladelia di voci campionate; ad accompagnarlo, un batterista, un bassista e un trio d’archi in carne e ossa. L’effetto, per quel che mi è dato di ascoltare, è quello di un soul/funk/jazz a bassi giri e luci soffuse che pesca a piene mani dalle radio di mezzo secolo fa: ben suonato, ma troppo ripulito per farsi anche coinvolgente alle mie orecchie, questo materiale non starebbe male nelle mani di Makaya McCraven.
Altro non so dire: è la pioggia torrenziale, stasera, a impedirmi di ascoltare il set per intero. E forse va bene così, visto il programma del giorno successivo.
DOMENICA
Ed eccola, la domenica finale su cui qualsiasi appassionato aveva fantasticato sin dall’annuncio della
line-up: Arab Strap, DIIV, Yard Act e Primal Scream - pronti, si diceva, a suonare il capolavoro "
Screamadelica" per intero. Quattro nomi capaci di riassumere declinazioni chiave del rock alternativo anglofono - dance,
psichedelia, post-punk,
shoegaze, slowcore - degli ultimi quattro decenni. Un
mood euforico per una giornata che si prospettava indimenticabile - e benissimo introdotta, fra l’altro, da un
panel del sempre coinvolgente Maurizio Blatto, dedicato questa volta al pop indipendente scozzese: un gustoso antipasto a base di
Orange Juice,
Jesus & Mary Chain,
Belle And Sebastian e
Franz Ferdinand, senza dimenticare ovviamente le peripezie di Gillespie e Moffat.
Il ritorno degli
Arab Strap lo scorso anno, dopo un decennio e mezzo di assenza dalle scene, l’abbiamo tutti salutato con gioia. Perché, sebbene immersi in un tempo in cui il concetto di "fine" non esiste più, "
As Days Get Dark" non recava in sé un grammo di autocompiacimento e routine tipico di questi ritorni di fiamma spesso blandi; nelle sue tracce si ascoltava invece la voglia di Aidan Moffat e Malcolm Middleton di tornare a regalare pezzi memorabili - e, sorpresa, riuscendoci pure - come quelli che avevano saputo scrivere da "The Week Never Starts Around Here" fino a "The Last Romance", commiato imprevisto.
Sul palco, i brani traboccano di chitarre distorte, guadagnando in impatto (post-)rock senza per questo snaturare gli originali - quasi dei
Mogwai che abbiano finalmente imparato a scrivere canzoni indimenticabili. Il resto lo fanno i testi, campionario di sesso occasionale da riderci o piangerci la mattina dopo, eccessi etilici, asprezza, sarcasmo e malinconia che è la cifra delle liriche di Moffat sin dal singolo d’esordio "The First Big Weekend" - roba di un quarto di secolo fa, una distanza che mette i brividi.
Mise improbabile, mattatore invece probabilissimo: il timbro studiatamente sbronzo è potente, nitido, in perfetto controllo; le mosse ironiche e agili, nonostante la mole; le parole, scandite con chiarezza nonostante il pesante accento scozzese, di valore letterario. Un’ora intensissima, che ha l’unico difetto di svolgersi ancora in piena luce e non con le ombre che le spetterebbero di diritto; e che, dalla fluviale "Fucking Little Bastards" alla straziante "New Birds" passando per il ruggito indie-rock di "Here Comes Comus!", mostra come gli Arab Strap si siano fatti classici senza somigliare mai davvero ad altri.
Mai stato un grande fan dei DIIV, e il loro era per me il momento meno atteso della giornata - gli album di studio mi hanno raramente spinto all’entusiasmo, per quanto trovi "Deceiver" una prova più che convincente. E se è vero che a volte i preconcetti salvano la vita, nella maggior parte dei casi finiscono solo per metterti al riparo da belle scoperte: per quanto la band di Zachary Cole Smith resti un felice anacronismo, il live al Todays ha mostrato una compattezza d’intenti e una maturità nella gestione dei suoni e delle dinamiche che non avrei previsto - del resto, nonostante l’aspetto adolescenziale, qui vanno tutti per i quaranta. Un sogno
nineties mai spezzato, il
sound dei
DIIV, riproposto però da chi allora non era abbastanza grande da formare una band; l’alt-rock di prima (gli
Smashing Pumpkins di "Siamese Dream") e seconda fascia (cose come i Drop Nineteens) e gli ovvi riferimenti shoegaze suonati dalla generazione che ha visto esplodere i
Deerhunter di
"Microcastle" e
"Halcyon Digest", forse gli ultimi dischi che abbiano saputo offrire una prospettiva inedita alla musica basata su
layer chitarristici. Un ottimo
set con ottimi suoni, e un finale da incorniciare con le splendide "Taker" e "Blankenship"; rimane un’unica perplessità, personalissima, su alcune melodie disegnate da
riff che esauriscono l’idea melodica nel giro di pochissimi istanti quando potrebbero invece farne qualcosa di più. Ma è poi, in fondo, uno dei tratti principali di un genere che, mostrano i DIIV, si può ancora suonare con convinzione e trasporto, ancorché fuori tempo massimo. E, soprattutto, farne strumento di autoterapia.
Meglio ancora, e ancor più impronosticabilmente per me, gli
Yard Act, che prendono la scena un attimo dopo. Sono tra i nomi più chiacchierati dell’anno e la coccarda di contemporaneità più
hype che il Todays di quest’anno possa esibire, eppure il loro esordio
"The Overload" mi aveva lasciato indifferente: di gente che riesumasse i
Fall non si è sentita la mancanza, ultimamente, e l’album è finito in fretta a prendere polvere su Spotify. E invece il loro live è arrivato per smentirmi e si è rivelato il migliore dell’intero festival insieme a quello dei Black Country, New Road: la chitarra di Sam Shjipston è taglientissima, il basso di Ryan Needham macina plettrate, la batteria Jay Russell srotola
groove eccitati. Ma è ovviamente il
vocalist, l’occhio del ciclone: camicia di alcune taglie di troppo, occhiali da
nerd e diavoletti anticapitalisti agitati fra i capelli, James Smith è una delle lingue più lunghe io abbia mai visto passeggiare nervosamente su e giù per un palco,
flow inarrestabile che travolge sia i testi - per il prossimo disco hanno promesso meno parole, ma queste, intanto, sono rimarchevoli ("Rich", "Payday") - che i racconti tra un pezzo e l’altro - divertentissimo il resoconto di un pomeriggio passato al Museo d’Arte Orientale, per il quale richiede al pubblico un applauso caloroso. Una
performance dall’effetto energizzante, che induce a danze scomposte: forse non hanno ancora la quantità di buoni pezzi degli
Shame, ma il loro live regala la stessa scarica di adrenalina. Probabilmente dei dischi di nessuno dei due gruppi si parlerà fra dieci anni; i loro live, però, se li ricorderanno tutti.
![Primal Scream Primal Scream](/ADMIN/upload_file/img_nl/todays_ps_600_600.jpg)
Manca solo il gran finale, ma quella che dovrebbe essere la ciliegina sulla torta, un trionfo scontato, diventa pietra della discordia - ne avrete già letto sui maggiori rotocalchi scandalistici di settore e sui
feed più indignati. I
Primal Scream arrivano, Bobby Gillespie è vestito da "
Screamadelica" e, quando tutti si aspettano "Movin’ On Up", parte "Swastika Eyes". Potrebbe essere un riscaldamento in vista della riproposizione integrale dell’album che ha portato i fan dell’acid house a scambiarsi le droghe con quelli del rock psichedelico, e invece la provocazione continua: la scaletta si concentra su "XTRMNTR" e "
Evil Heat", il
sound è rock’n’roll sfasciato con la chitarra fuori controllo e Gillespie che incita la folla - la formazione comprende giusto basso, batteria e tastiere/elettronica, e tutti i cori sono campionati.
Prima del concerto, la
playlist di sottofondo regalava classici da ballare (anche la leggendaria "Can You Feel It" di
Mr. Fingers); ora regnano gli spiriti malevoli di
"Kick Out The Jams" - e non è un caso che sbuchi un "rama lama fa fa fa", verso la fine: i Primal Scream sono gli
MC5 della generazione
rave. La dedica a
Mark Lanegan, "Deep Hit Of Morning Sun", è un’allucinazione psichedelica inspiegabilmente commovente - Gillespie la mugugna da un altrove imprecisato in ricordo di un amico, ma è evidente che stia pensando "potevo essere io".
"Movin’ On Up" alla fine arriva e la cantano tutti - sembra realmente un’epifania collettiva che trascina fuori dall’oscurità; e poi è solo altro rock’n’roll, sempre più classico e sempre più sporco: "Country Girl", "Rocks" e la festa è finita. Ci vogliono alcuni minuti prima che la band ritorni sul palco per suonare "Loaded", il pezzo che chiunque avrebbe voluto sentire e di cui si è rischiato di non ascoltare nemmeno l’
intro; il classico di un’epoca che non esiste più, da un bel po’.
Non sapremo mai come sia andata, se si sia trattato di una semplice incomprensione con l’organizzazione del Todays oppure di un totale disinteresse per un accordo già preso. Personalmente non m’interessa: mi è parso che in quell’esecuzione privata delle magie di
Andrew Weatherall - vero artefice di "Screamadelica", un disco che sembra esistere in un vuoto in forma definitiva e irripetibile - si nascondesse il più divertente "io sono vivo, voi siete morti" di Gillespie, sberleffo punk sputato sul
dancefloor con sorriso acido e
sound più che sgangherato. Goderselo da cinque metri di distanza, tra corpi sudati e convintamente entusiasti, ha preso allora tutt’altro sapore: quello di una celebrazione collettiva di un’idea abbracciabile dello stare al mondo.
"Come together as one", insomma. Anche se poi quella non l’hanno fatta.