Prog chiama hip hop

Una storia d'amore per campionamenti

I produttori hip hop sanno riconoscere una buona idea quando la sentono. Per decenni una critica musicale pigra ha bollato il progressive rock come eccessivo e autoreferenziale, ma break ritmici incisivi, atmosfere variegate e intrecci fuori dagli schemi ne fanno un bacino inesauribile di possibili sample e interpolazioni. Così il genere è entrato nell’hip hop senza chiedere permesso, ed è oggi una delle sue fonti di campionamento più ricorrenti, trasformato e riscoperto beat dopo beat. Lo si ritrova nelle situazioni più disparate, dal brano d'alta classifica come "Power" di Kanye West, che riprende il celebre riff di "21st Century Schizoid Man" dei King Crimson, a quello più sotterraneo e oltranzista, come "Known For It" dei Death Grips, che sfrutta l'intensità di "De Futura" dei Magma. Ma gli esempi possibili sono centinaia, perché il ricorso a sample prog in campo hip hop ha una frequenza seconda solo ai generi più legati alle radici black del filone: funk, soul e jazz.

Creatività, complessità e groove imprevedibili

A rendere il prog perfetto per il saccheggio sono la sua ricchezza in termini di atmosfere e la tendenza a isolare momenti strumentali particolarmente inventivi, vuoi per il piglio virtuosistico, vuoi per il carattere esplorativo. In "Y'All Scared" degli Outkast, il sound acquatico si alimenta del legato chitarristico di "Air Born" dei Camel, l'ancestrale corno trutruca di "Bosques virginales" dei cileni Jaivas introduce "How To Be A Carpenter" di Aesop Rock, mentre al centro di "Self Hate Bad Dub" degli Atmosphere c'è un ghirigoro chitarristico da "Dancing With The Moonlit Knight" dei Genesis.
Anche le tessiture vocali possono essere messe in primo piano, come contraltare al carattere naturalmente più monocorde della vocalità hip hop: le voci operistiche di "Naibu e no tsukikage" dei giapponesi Kenso colorano "Doja" di $not e A$ap Rocky, mentre le stratificazioni complesse dei Gentle Giant sono state campionate da De La Soul, Madlib, A Tribe Called Quest, Run The Jewels e dal recente campione di incassi Travis Scott. E perfino un fischiettio può diventare un elemento chiave, se funzionale alla costruzione del giusto mood: così Jay Dee costruisce il suo featuring con Phat Kat su uno zufolo preso in prestito da "Will O' The Wisp" di Steve Howe.

Un altro aspetto cruciale è la ricchezza ritmica offerta dal prog. Sviluppatosi negli stessi anni del jazz-funk e della fusion, il prog ne ha spesso ripreso il dinamismo ritmico, rileggendolo in una chiave più tagliente e rock. La propensione a esplorare accenti inusuali ha poi fatto dei dischi una miniera di groove inaspettati, ideali per chi vuole uscire dai soliti schemi. Il beat roccioso di "Memoirs Of An Officer And A Gentleman" degli Emerson Lake & Palmer, tratto dal bistrattato "Love Beach", è stato campionato più e più volte (è pure finito in un pezzo di Fatboy Slim). E l'iconico shuffle di "Tom Sawyer" dei Rush è alla base di "Mean Mean Pride" di Danny Brown.
Ma ritmo non significa soltanto batteria: ben due classici dell'hip hop italiano anni Novanta hanno al centro lo stick di Tony Levin in "Elephant Talk" dei King Crimson, sezionato e manipolato per aggiungere un tocco straniante a "Rigurgito antifascista" dei 99 Posse e "Potere alla parola" di Frankie Hi-Nrg Mc.

Un arsenale di atmosfere

Anche l'ampia gamma evocativa del progressive rock ha catturato l'interesse dei produttori hip hop, specialmente attenti a carpire stralci in grado di suscitare emozioni ricche e proiettare atmosfere fuori dall'ordinario. La familiarità del sound prog con il solenne e il maestoso è stata sfruttata abbondantemente per esplorare la grandeur in tutte le sue possibili sfumature: gli organi epici di Rick Wakeman in "Close To The Edge" e il minaccioso suono sintetico di "Evacuation" di Mike Oldfield risuonano entrambi nella sbilenca "Metal Gear" dei Cannibal Ox, gli archi sontuosi di "Mother Russia" dei Renaissance, selezionati dal produttore Rza, aggiungono un tocco aristocratico e malinconico a "Tanasia" di Nas, mentre El-P utilizza "Tubular Bells" di Mike Oldfield in "Tuned Mass Damper" e "Karn Evil 9" di Emerson Lake & Palmer in "Lazerface's Warning", senza neanche scomodare la collaborazione attiva coi Mars Volta in "Tasmanian Pain Coaster".
La ricerca di atmosfere oniriche, surreali, sospese si intensifica quando dall'hip hop puro ci si sposta in campi da questo influenzati. I tintinnii enigmatici di "Tribute" di Manfred Mann sono sfruttati dai Massive Attack di "Black Milk" per combinare distensione e inquietudine, mentre il gorgoglio luminoso che apre "The French Lesson" dei Soft Machine si ritrova tale e quale anche all'inizio di "Between Memories" di Flying Lotus. Anche il suono hi-tech e confortevole di "Time Stand Still" dei Rush ha trovato un suo spazio, nella vaporwave: il padrino del genere, Daniel Lopatin, ha rielaborato il brano in un omaggio al futuro perduto che fa della nostalgia un'estetica, sospesa fra slancio tecnologico e malinconia.

Oltre i confini

La caccia al ripescaggio più efficace non si limita ai giganti del prog anglosassone. Anche artisti hip hop di primo piano hanno attinto da regioni meno in vista del panorama progressivo, mostrando (magari interposto produttore) una conoscenza non indifferente delle scene progressive di tutto il mondo e di tutte le epoche. Dr. Dre ha campionato la Locanda delle Fate, Travis Scott ha pescato dagli ottantiani New England, gli A Tribe Called Quest hanno attinto agli Invisible (band del maestro del rock argentino, Luis Alberto Spinetta) e Jay-Z ha utilizzato i portoghesi Quarteto 1111.
In un'ipotetica classifica dei nomi esterni all'atmosfera che maggiormente ricorrono nei campionamenti hip hop, svettano in particolare Spinetta (che da solista o con le sue varie band è stato ripreso in brani di The Alchemist, Captain Murphy, Eminem, Blockhead), gli olandesi Focus (J. Cole, OutKast, Lupe Fiasco), i tedeschi Eloy (50 Cent, Havoc, Prodigy), i polacchi Czesław Niemen (Vince Staples, Madlib, Billy Woods, Roc Marciano), Budka Suflera (Big Shugg dei Gang Starr, Dj Muggs, The Alchemist) e SBB (Madlib, Snoop Dogg, Tyler The Creator, Dj Shadow, Dj Krush).
I campioni assoluti sembrano però essere gli ungheresi Omega, grazie alla leggendaria "Gyöngyhajú lány" (dall'album "10 000 lépés", 1969), ripresa per la prima volta dal rapper canadese Evil Ebenezer nel 2006, a cui han fatto poi seguito Wiz Khalifa, Kanye West, Madlib, nonché gli italiani Mecna e Night Skinny feat. Rkomi. Non è peraltro il loro unico brano oggetto di interesse: Madlib ne ha campionato anche "Éjféli koncert", in "Track 29", Big Shug dei Gang Starr ha usato "Járt itt egy boldog ember" in "Exposed", la coppia M.E.D. e Guilty Simpson ha inserito "Russian Winter" in "Face Down" e "Movin' World" in "The Future", e la lista potrebbe continuare.

I campionamenti prog sono una costante nella storia dell'hip hop, soprattutto dagli anni Novanta in poi. Sebbene molti artisti abbiano preso spunto da questo bacino sonoro, alcuni si distinguono per la profondità della loro ricerca e la maestria nel rielaborare frammenti progressivi.
Madlib è fra i più eclettici: alle citazioni già riportate si possono aggiungere Van Der Graaf Generator, Hatfield and the North, Nucleus, Brand X, Kingdom Come, Fruup, Synergy, gli indonesiani Shark Move, gli israeliani Sheshet, i brasiliani O Terço, i romeni Phoenix e il turco Barış Manço (gli ultimi due sono peraltro artisti leggendari nelle rispettive scene).
J Dilla, altro crate-digger dalla forte predilezione progressiva, ha ottenuto una costruzione ritmica personale incollando frammenti di Caravan, Starcastle, Brand X, nonché dei nostrani Banco e Acqua Fragile.
Kanye West ha sfruttato la molteplicità della tavolozza prog (campionando chiunque dai Rovescio della Medaglia a Mike Oldfield, da Manfred Mann agli Yes) per esaltare la sua visione sfarzosa, mentre Danger Mouse ha fatto della fusione tra stili contrapposti il suo marchio di fabbrica, appoggiandosi su stralci di Biglietto per l'Inferno, Sandrose e Agincourt.
Il particolarmente controverso Ill Bill ha ripescato, fra i tanti, Emerson Lake & Palmer, l'olandese Thijs Van Leer, gli slovacchi Fermáta, i cechi Flamengo e gli svedesi Kaipa.
Manciate di prestiti progressivi compaiono anche nei beat immaginifici di Dj Shadow (Osanna, Sensations' Fix, Alan Parsons, i tedeschi Embryo, il finlandese Pekka Pohjola, gli olandesi Supersister, gli svedesi Trettioåriga Kriget) e Four Tet (i francesi Malicorne e Alan Stivell, i canadesi Harmonium, il finlandese Jukka Tolonen). Altri habitué del prog si rintracciano nel giro Anticon, con i dischi di Buck 65 e Deep Puddle Dynamics zeppi di sample più oscuri e meno oscuri (Atomic Rooster, Mike Oldfield, Captain Beyond, Manfred Mann, Rush, Procol Harum, Jethro Tull, gli svedesi Bjorn J:Son Lindh e Bo Hansson).
Alan Daniel Maman, più noto come The Alchemist, in particolare nei suoi lavori per Conway The Machine, ha manipolato Facedancers, Mandalaband, Eloy, gli olandesi Earth & Fire, gli austriaci Eela Craig, gli spagnoli Canarios e i cechi Blue Effect.
Sempre parlando di Conway The Machine, le basi realizzate per lui da Thomas Paladino aka Daringer vantano pochi rivali per eterogeneità: i Camaleonti, il polacco Tadeusz Woźniak, lo slovacco Dežo Ursiny, i giapponesi Ain Soph e Stomu Yamash'ta, i tedeschi Novalis, i belgi Cos, gli spagnoli Triana, i canadesi Sloche, i danesi Secret Oyster e ancora Jukka Tolonen.

Realtà artistica contro ideologia giornalistica

L’intensità della relazione tra progressive rock e hip hop può apparire sorprendente, ma è un legame che si costruisce su solidi elementi comuni: la ricerca ritmica, la capacità evocativa del suono, la fusione di elementi eterogenei. La sintonia, insomma, è tutt’altro che casuale: il progressive rock è nato dall'assorbimento di influenze disparate, dalla musica classica al jazz, dal folk alla psichedelia, per espandere i propri orizzonti sonori. E così l'hip hop, che con il campionamento ha democratizzato l'accesso a un'ampia gamma di generi senza richiedere competenze tecniche tradizionali, anche il prog ha sfruttato le nuove tecnologie – sintetizzatori, Mellotron, tecniche di registrazione avanzate – per raggiungere complessità e grandezza altrimenti irraggiungibili. In entrambi i casi, la tecnologia è stata lo strumento essenziale per superare i limiti, attingere a mondi sonori lontani, adattare suoni rielaborandoli in contesti nuovi.

Che il rock progressivo sia tra le fonti più frequentemente campionate dall’hip-hop è un fatto difficilmente contestabile, come mostra l’elenco sempre più fitto di beatmaker che ne citano frammenti, strutture, atmosfere. Alcuni ne sono autentici appassionati, e probabilmente conoscono il filone in modo più approfondito di buona parte dei giornalisti musicali. Eppure, questa relazione è stata raramente tematizzata da chi ha analizzato il fenomeno hip hop. Come mai un legame tanto fertile è stato sistematicamente trascurato, se non addirittura ignorato deliberatamente? Per capirlo, è necessario considerare l’evoluzione storica del giornalismo musicale, e in particolare del suo ramo culturalmente dominante: quello angloamericano.

Egemonia e cancellazioni

Nel corso degli anni, si sono consolidati in questo campo una serie di meccanismi dialettici e ideologici nati nel periodo di maggiore centralità del rock, che sono diventati punti fermi della critica musicale. Questi schemi hanno attraversato i decenni e si sono adattati trasversalmente, rimanendo attivi anche quando ci si occupa di generi molto distanti dal rock stricto sensu, come il pop o il rap.
Non è un caso, ad esempio, che oggi molti giornalisti e operatori del settore usino la parola "rock" per indicare l’intero campo della musica popolare. Basti vedere come la Rock and Roll Hall of Fame accolga regolarmente figure che con il rock in senso stretto hanno ben poco a che fare: Janet Jackson, Whitney Houston, Eminem, Jay-Z.

Certo, la critica musicale non è un blocco monolitico. È attraversata da differenze culturali e locali (i critici italiani non sono necessariamente allineati a quelli anglofoni,  benché purtroppo capiti spesso che si muovano nella loro ombra) e gli atteggiamenti sono influenzati dalle dimensioni delle testate, dagli orientamenti individuali e da una miriade di altri fattori. Eppure, per quanto non la si voglia assolutizzare, si tratta di un’inclinazione maggioritaria che rappresenta un fenomeno meritevole di analisi.
Da decenni, infatti, la critica anglofona è caratterizzata da due tendenze che vanno di pari passo e sembrano inseparabili: da un lato, l’esaltazione dell’hip hop; dall’altro, il disprezzo sistematico verso il rock progressivo e le sue diramazioni. I due approcci non sono nati in conseguenza l’uno dell’altro: su OndaRock è stata presa in analisi la nascita del rigetto verso il prog in lungo articolo di cui si raccomanda la lettura (“Punk vs. prog - Storia di un falso mito”). Per farla breve, si tratta di un atteggiamento emerso già nei primi anni Settanta, quando l'hip hop ancora non esisteva. Di contro, il riconoscimento dell’hip hop come fenomeno cruciale si inserisce in un processo più ampio di riassetto critico: la black music, a lungo ignorata o relegata a ruolo ancillare, è diventata il fulcro di un nuovo paradigma ideologico fondato sulla pluralità e sull’inclusione.

Rimane però il fatto che, oggi come oggi, le più popolari e influenti testate critiche angloamericane sono in netta maggioranza caratterizzate da questi due elementi. Pur non essendosi sviluppati volutamente in contrasto, coesistono con una frequenza sorprendente, e il loro abbinamento è un fenomeno che sembra autoalimentarsi, portando alla nascita di nuove schiere di fruitori che assorbiranno ambedue le caratteristiche.
Negli ultimi anni, questa polarizzazione si è spinta fino a esiti caricaturali: il prog è stato associato a un’ostentazione identitaria bianca, al punto da essere bollato come “la musica più bianca di sempre” in un popolare articolo dell’Atlantic. Un’accusa paradossale e antistorica: per quanto il prog cercasse riferimenti anche nella cultura europea, i suoi protagonisti erano spesso profondamente legati alla tradizione afroamericana, dal jazz al soul al blues, e tutt’altro che impegnati in una missione di esclusione. Ridurre quel movimento a un’autocelebrazione della whiteness significa ignorarne tanto le radici quanto l'innata vocazione al superamento dei confini culturali.

Ancora una volta, insomma, la critica è rimasta intrappolata in steccati e categorie rigide, proprio mentre gli artisti agivano con una libertà ben più ampia e disinvolta. Campionamento dopo campionamento, la storia di questo intreccio conferma la vitalità dell’eredità prog, che nel suo continuo trasformarsi ancora sfida ogni pregiudizio e categoria rigida. Fino a dimostrare che fra due generi a lungo percepiti come antitetici non sussiste alcuna contrapposizione essenziale, solo una lunga conversazione fatta di loop, incastri e variazioni.

Nota conclusiva: questo articolo non sarebbe esistito senza la piattaforma Whosampled.com. Il suo enorme archivio di campionamenti è stato un riferimento insostituibile per svelare la pervasività della relazione esplorata nei paragrafi sopra, e questo excursus sintetico non svela che una piccola parte di quanto un lettore curioso potrebbe scoprire frugando fra le pagine del sito.
Chi desiderasse una comoda porta d'accesso all'universo dei campionamenti prog nell'hip-hop potrebbe inoltre ricorrere alla playlist che accompagna questo articolo. Sessanta brani che sono solo un assaggio, in parte perché non tutti i pezzi menzionati nell'articolo sono reperibili su Spotify, in parte perché anche una compilation lunga il quintuplo non mapperebbe in modo soddisfacente l'intero campo. Ma da qualche parte si deve ben partire e la speranza è che la selezione proposta possa servire efficacemente allo scopo.

31/05/2025