Senza pretese di completismo, ma neanche quella di dare voce in toto alle classifiche della redazione, abbiamo pensato di farvi ascoltare le playlist che meglio rappresentano l'"anno musicale" di ciascuno. Le canzoni che hanno spiccato all'interno di un certo genere, le canzoni-simbolo degli artisti-rivelazione o delle grandi conferme - o, più semplicemente, le canzoni che hanno significato qualcosa per noi che le abbiamo ascoltate.
Tommaso Benelli
Il 2021 ha fatto schifo per molte ragioni, ma almeno ci ha lasciato tanti bei film e canzoni come “Solar Power”, “Shelter Song” e “Vivo”, così che un motivo per sorridere lo si trovi sempre. Scusate la laconicità, ma sono a corto di retorica.
“The apocalypse is coming/ Only moving slow and unevenly”, proclama Kyle Morton dei Typhoon con il suo timbro vibrante. Intanto, a Dallas, una frangia degli adepti di QAnon si riunisce per attendere l’avvento di un redivivo John Kennedy. La fine dei tempi è vicina? O piuttosto, il fatto è che non siamo più d’accordo nemmeno su quello che chiamiamo realtà?
Difficile fidarsi gli uni degli altri, quando gli occhi non vedono più le stesse cose. Il nostro lungo inverno pandemico assomiglia sempre più all’avamposto antartico de “La cosa”: ci lanciamo sguardi diffidenti in cerca del nemico, ogni giorno un po’ più esausti del precedente. Ed è proprio partendo dalle immagini del film di John Carpenter che Sufjan Stevens e Angelo De Augustine ci ricordano su un soffio di piano dove sta il punto: “This is the thing about people/ You never really know what’s inside”. Ripartire dal mistero dell’altro. Dalla sua irriducibilità.
Certo, di ripartenze se ne è parlato fin troppo quest’anno. Facendo finta di poter riprendere da dove eravamo rimasti, come se nulla fosse successo. No, non è possibile. Dopo aver lottato tutta la notte, ammonisce l’intreccio di voci dei Low, si portano addosso i segni per sempre. Come per il Giacobbe biblico, sono quei segni a dire chi siamo davvero. Sono quei segni a indicarci la strada.
Marco Bercella
Questa playlist è la selezione di 20 canzoni - ognuna tratta dai miei album preferiti del 2021 - organizzata sotto forma di compilation il più possibile coerente (avete presente “ti faccio una cassetta!”? Forse no, ma fa niente). Per i nomi più in vista rimando alle accurate recensioni dei redattori, mentre spenderò qualche parola per chi - a vario titolo - è rimasto sullo sfondo. I graditi ritorni sono sanciti dagli ormai decimati Stranglers, che ci consegnano il guizzo inaspettato con “Dark Matters” e dai Blow Monkeys di “Journey To You”, entrambi vivi e vegeti e assolutamente non relegabili tra le plasticose fighetterie anni 80. Tornando ancor più indietro nel tempo, è d’uopo segnalare il miracolo dei due ultraottantenni a stelle e strisce Dion e David Crosby, giacché fuoriclasse si resta per sempre, anche senza strafare. In Italia vale sempre la regola per cui più ti allontani dai circuiti ufficiali, alternativi o meno, e meglio trovi dischi degni di nota: segnate quindi
i nomi dei Blocco 24 alla voce elettrowave d’autore, degli Accauno a quella del prog senza nostalgismi e di Paolo F. Bragaglia, coi suoi mirabili esercizi technotronici.
Paolo Ciro
I miei preferiti 2021 sono in gran parte vecchie conoscenze. Non che sia stato un anno privo di novità, e nemmeno di debutti eccellenti, ma alla fine i dischi che hanno ipotecato i miei ascolti nell'arco di questi dodici mesi rientrano sostanzialmente nel novero delle conferme. Partiamo da Jacopo Incani, aka Iosonouncane, che è riuscito nell'impresa di portare ancora più in alto il livello della sua opera con un affresco contemporaneamente intimista, ventoso e rigoglioso, di quelli che solo gli isolani sanno concepire e tradurre in termini sonori. Per darvi un'idea, nessun disco italiano era mai finito in cima alla mia classifica di fine anno, ecco. A ulteriore dimostrazione del suo valore, considerate che i suoi diretti concorrenti erano due combo che navigano tra i preferiti degli addetti ai lavori da molto più tempo, ovvero Arab Strap e Low. I primi, tornano dopo sedici anni di silenzio e lo fanno con una tale naturalezza che sembra non siano mai andati via. I secondi sono uno di quei patrimoni da custodire gelosamente, di quelli che regalano un senso alla necessità di produrre dischi ancora oggi e una completezza di perimetro a dir poco universale in termini di emozioni restituite. Tutto grazie anche a BJ Burton, il responsabile della centrifuga sonora che avvolge il loro songwriting da un lustro a questa parte. Usciti dall'élite delle prime tre posizioni però, sono ancora tanti dischi di valore assoluto. Alcuni riescono a declinare livelli sempre più destrutturati di oscurità e impegno (Moor Mother, The Bug), altri ri-codificano elementi del passato dando forma a una complessità che in ambito rock non si sentiva da tempo (Black Country, New Road e Black Midi). La mia playlist segue l'ordine della classifica proponendo, anche in maniera piuttosto scontata, un estratto per ogni disco. Spero che non arrivi scontata alle vostre orecchie
Michele Corrado
Tanti sono i generi musicali, le scene, globali e nazionali, che oggi è possibile seguire e tanti sono i tesori che ciascuno di questi ambiti serba, che ogni anno licenziare una playlist che sia concisa e soddisfacente diventa più difficile.
L’unico modo per affrontare una missione del genere è imporsi regole stringenti. Nel mio caso, altrimenti non la finivo più, mi sono detto “okay Michele, 2021, 21 canzoni soltanto”. È nata così un'infilata di brani scostante e disinibita, che se ne frega di generi e paletti, unita solo dalla bellezza e dalla "appiccicosità" dei brani; che difatti sono quelli su cui più sono tornato in questo anno di ascolti compulsivi e voraci e che certamente mi porterò dietro.
L'anno prossimo ve ne metto 22 promesso, e quello dopo 23 e così via finchè un giorno, qualcosa mi fermerà.
Giuliano Delli Paoli
Annata estroversa, caratterizzata da sorprese come gli ultimi tre singoli di Mitski Miyawaki, ormai sempre più lontana dalla riot girl dell’esordio con il poster di Liz Phair appeso in camera. Tre nuove canzoni che lasciano ben sperare per il nuovo album in arrivo, tra le quali spicca "Working for the Knife", epica e magicamente sfuggente quanto basta per sancire con classe il nuovo cammino intrapreso. C'è poi Lana Del Rey, che come se non bastasse inanella due dischi ancora una volta ispiratissimi, e contenenti perle come "Violets for Roses", instant classic al primo ascolto. A chiudere il podio tutto al femminile, l'introversa Natalie Jane Hill, cantautrice texana e autentica gemma nascosta del cantautorato folk, a metà strada tra Nick Drake e Sandy Denny. Segue l'arabic pop dell'egiziano Hamza Namira, con una ballata raffinatissima in cui spuntano anche oud e kawala, l'israeliano Bar Tzabary e la sua muzika mizrahit ricca di soluzioni multiple, i sempreverdi Bilderbuch (mai che sbagliassero una canzone), l'intramontabile cifra stilistica di Cate Le Bon, il rap orchestrale di McKinley Dixon, l’eterno Kanye West e l’ambizioso pop barocco della promettente Spellling.
Claudio Fabretti
In quest'altro strano anno condizionato dalla pandemia, non sono mancate le sorprese musicali. Chi avrebbe mai immaginato ad esempio che un cantautore indie italiano come Iosonouncane, che solitamente ritenevo un po' troppo legato a quel microcosmo, tirasse fuori dal cilindro un album monumentale come "Ira"?
E nell'anno appena trascorso, non sono mancate nuove rivelazioni, per quanto mi riguarda, dall'israeliano Bar Tzabary al sorprendente per certi versi - ma fino a un certo punto - exploit del duo dei Silk Sonic, formato per l'occasione da due marpioni della black music come Bruno Mars e Anderson Paak.
Poi, naturalmente, sono arrivate anche le conferme. Come quelle di una corazzata indie di nome Godspeed You! Black Emperor ("G_d's Pee AT STATE'S END!"), ma anche di giovani formazioni ormai collaudate della nuova scena post-punk come gli Idles di "Crawler" e gli Iceage di "Seek Shelter", di (quasi) veterani della minimal wave come Xeno & Oaklander, ("Vi/deo"), di sempre meravigliose cantautrici come Lisa Gerrard ("Burn"), Marissa Nadler ("The Path Of The Clouds"), Chelsea Wolfe (al fianco dei Converge per "Bloomoon: I"), Lana Del Rey (l'accoppiata "Blue Banisters"-"Chemtrails Over The Country Club") o la giovanissima Billie Eilish, ormai certezza assoluta del pop mainstream, come certificato dal suo "Happier Than Ever". Ma anche l'Italia mi ha riservato soddisfazioni, dalla sorpresa-Extraliscio al gradito (e convincente) ritorno di Carmen Consoli.
Valerio D'Onofrio
Stefano Fiori
Anche quest’anno non si esce vivi dagli anni 80, per fortuna! Che siano quelli sontuosi riscoperti dall’accoppiata Van Etten-Olsen o quelli più synth-pop rivisitati da Bieber e The Kid Laroi o da Dua Lipa, il “decennio più frivolo” non smette di regalare spunti all’attuale scena pop, al punto che persino un rapper come Lil Nas X appare credibile nel dare la sua versione di new wave e riesce a non stonare vicino a chi quel periodo l’ha reso grande in prima persona (i redivivi Duran e Tears For Fears). A smussare gli angoli un po’ di sciantosa morbidezza al femminile (Del Rey, St. Vincent ed Eilish) che non guasta mai.
Fabio Guastalla
Francesco Pandini
Un anno senza senso, un anno rubato e andato perduto. O forse no, ma almeno questa è stata l'impressione.
Federico Romagnoli
Le mie canzoni preferite del 2021, provenienti da ogni parte del mondo, dall'Egitto alla Cambogia, da Taiwan alla Spagna. Nella prima parte quelle provenienti da singoli sfusi o album che ancora devo approfondire, nella seconda quelle tratte dai dischi che ho già votato nell'apposita sezione.
Marco Sgrignoli
Ho voluto dividere la mia playlist in due parti nette. La prima, che potrei chiamare "canzoni", raccoglie i dodici pezzi più orecchiabili e a modo loro "canterini" che mi hanno accompagnato quest'anno: dentro ci sono brani di album che ho amato e in qualche caso recensito (San Salvador, Baiuca, Stick In The Wheel), ma anche numeri pop di successo che mi hanno conquistato indipendentemente dagli album di cui fanno parte, talvolta deludenti (Killers, Tom Grennan). Nel ventaglio stilistico abbondano il progressive pop e le rielaborazioni del folk tradizionale, ma c'è spazio anche per molto altro.
I dieci pezzi successivi, minori in quantità ma più estesi in durata, più che canzoni andrebbero chiamate "tracce". Sono i brani che meglio hanno riempito i tanti momenti in cui di ascoltare canzoni vere e proprie non mi andava, e cercavo invece nella musica un compagno meno protagonista. Lì emergono le mie altre grandi passioni di questi anni: il nu jazz nelle sue varie forme (STUFF., Apifera, Ola Kvernberg), le sonorità dell'altro Mediterraneo (Daniel Herskedal, Naïssam Jalal), le eredità post-, progressive e jazz-rock (Francesca Remigi, Really From), quel territorio elettronico che un tempo si chiamava deconstructed club e ora invece chissà (Giant Claw, Fatima Al Qadiri). Chiudono e aprono la sezione due brani a cavallo fra le categorie: un pezzo strumentale che rapisce melodicamente più di un brano cantato, e una canzone fatta e finita in cui però la voce è uno strumento fra tanti, non per forza il più in vista.
Maria Teresa Soldani
Massimiliano Speri
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