Flavio Caprera

Franco D'Andrea - Un ritratto

Autore: Flavio Caprera
Titolo: Franco D'Andrea - Un ritratto
Editore: EDT
Pagine: 232
Prezzo: 19 euro (cartaceo), 13,99 euro (ebook)

Raccontare la storia di Franco D’Andrea è raccontare la storia del jazz italiano. Cimentarsi con la scrittura di un libro sul pianista meranese, noto anche agli amanti del rock progressivo per la sua militanza nei Perigeo, è dunque una sfida assai ambiziosa. Il volume di Flavio Caprera, uscito a marzo per la collana “Biblioteca di cultura musicale” di EDT, non solo riesce nell’impresa, ma risulta anche una lettura avvincente e dal taglio per nulla banale.

Cucendo interviste, documenti d’epoca (riviste, note di copertina) e la personale esperienza d’ascolto dell’autore, le circa 180 pagine di racconto ritracciano in maniera ordinata, ma mai pedissequa, i sei decenni - and counting! - di carriera del musicista. Una vita che lo ha visto dialogare alla pari coi grandi di ogni epoca, attraversare con personalità le più diverse ere del jazz, e contribuire in modo essenziale allo sviluppo della scena italiana e alla sua affermazione internazionale. Bebop, hard-bop, post-bop, jazz modale, free, avant-jazz, jazz-rock progressivo… e poi indietro dallo swing fino allo stride, avanti fino alle contaminazioni col DJing, e “di lato” fino a immergersi nel serialismo: sono ben pochi gli stili coi quali D’Andrea non si sia cimentato. Come innumerevoli sono, sia in fatto di organico strumentale che di nomi coinvolti, le formazioni che abbiano visto il pianista in un ruolo di primo piano, spesso riconosciuto dal conferimento di importanti premi musicali (disseminati tra il 1979 e il 2018!). D’Andrea suona in modo non episodico con Gato Barbieri, Aldo Romano, Lee Konitz, Miroslav Vitous, Tino Tracanna, Paolo Fresu, Dave Douglas, Ares Tavolazzi, Joe Lovano: musicisti italiani, europei, americani apprezzano la sua versatilità pianistica come l’indiscussa personalità del suo stile.
Fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, poi, acquistano importanza per lui l’attività di insegnamento ed elaborazione teorica: il suo testo “Aree intervallari”, del 2011, rappresenta la sintesi di un percorso pluridecennale di indagine sulle strutture armoniche fondamentali del jazz, capace di conciliare e assieme superare le numerose impostazioni fra loro alternative succedutesi dallo swing al free. Il trombettista Enrico Rava, pilastro del jazz italiano e non solo, nonché frequente collaboratore di D’Andrea, ne scrive nella prefazione al testo: “D’Andrea è un talento unico, così pieno di musicalità da riuscire a decodificare in breve tempo il segreto di qualunque strumento. […] Malgrado le sue abitudini non coincidano con lo stereotipo del jazzista, lui lo è all’ennesima potenza, e non sono molti (se ci sono) i pianisti europei che possano reggere il confronto con lui, né allora né oggi”.

L’approccio critico del volume lascia trasparire una profonda devozione alla musica del pianista, e si caratterizza per un orizzonte inusuale: per quanto celato fra le righe, appare chiaro come l’autore ritenga che il jazz di D’Andrea stia fornendo gli spunti più lungimiranti e maturi proprio nelle opere degli ultimi anni. Che si condivida o meno questo sguardo anomalo alla carriera di un artista che è “sulla cresta dell’onda” nel suo ambito da più di cinquant’anni, la prospettiva ha il forte merito di trascinare il lettore nel suo entusiasmo e indirizzare il suo interesse anche verso quei lavori più tardi che, forse, una ricostruzione più sbrigativa avrebbe analizzato con cura minore.
Sono particolarmente apprezzabili, poi, i frequenti aspetti di analisi armonica che accompagnano la discussione di brani, dischi e generi. Anche un lettore digiuno di teoria jazz riesce a seguire il filo che, attraverso lo strumento della sostituzione accordale, lega lo swing al bop al modal jazz e poi al free — e tutto questo, senza il bisogno di sterili digressioni accademiche, ma mantenendo centrale il riferimento alla musica di D’Andrea.

Questa attenzione, purtroppo, si perde proprio sul più bello (almeno dal punto di vista di un ascoltatore orientato al rock): giusto al momento di iniziare a discutere dei Perigeo, la cura per gli aspetti strutturali si fa da parte lasciando il posto a considerazioni sulla strumentazione e le reazioni critiche dell’epoca. Elementi interessantissimi, sia chiaro, e che però lasciano il dubbio sulla ragione del cambio di stile: forse il tipo di analisi dipende dalle fonti scritte disponibili riguardo alle diverse fasi artistiche?
Spiace anche che, nel considerare gli ultimi anni del percorso artistico di D’Andrea, si facciano via via più rari i confronti sincronici con le tendenze più significative del jazz contemporaneo: sarebbero stati forse più incisivi dell’utilizzo talvolta piuttosto disorientante di certe iperboli vaghe che tanto piacciono al giornalismo musicale, ma poco aiutano a decodificare la musica e collocarla all’interno di riferimenti generali. Da quest’ultimo punto di vista, suona come un’occasione persa il frequente ricorso agli aggettivi “blues” e “intervallare” come ad assi pigliatutto: termini di per sé dotati di un valore preciso, i cui referenti musicali non sono tuttavia resi espliciti nel contesto della musica del tardo D’Andrea, e che dunque risultano sostanzialmente privi di ruolo analitico.

Le criticità sopra discusse non intaccano l’efficacia e la godibilità del lavoro di Caprera, che coinvolge e lascia il lettore arricchito di uno sguardo organico alla nostra storia jazzistica e provvisto di dozzine di spunti di ascolto, nonché del desiderio di tradurli al più presto in realtà.