Bran Van 3000

Glee - Tutto il resto degli anni 90

branvan3000gleeEstate 1998, circa. Chi scrive era un bambino undicenne e la Mtv Generation era al suo apice. La filiale italiana dell’emittente era nata solo un anno prima e rappresentò una piccola rivoluzione per i giovani dell’epoca, sia per quelli un po’ più avanti in età, orfani di Videomusic, sia per chi - per ragioni anagrafiche - quella stagione non ebbe modo di viverla. L’avvento di Mtv per un ragazzino che - come il sottoscritto - iniziava in coincidenza a prepararsi a varcare la soglia della baraonda adolescenziale, assunse valore di vettore di un certo tipo di immaginario. Essere stato un pre-adolescente nel secondo lustro dei Novanta significava aver visto quell’era soltanto in vetrina; averla respirata, ritratta addosso a quelli più grandi, mitizzata dai film e dai telefilm. Ma non vissuta. I primi vagiti di Mtv Italia furono un’epifania, anche e soprattutto per chi era troppo piccolo per avere una precisa cognizione di ciò che stesse accadendo intorno. In quelle maratone di videoclip e programmi dall’accento anglosassone c’era, come mai nella vetustà delle reti generaliste, un senso rivelatorio di quegli anni Novanta inafferrabili per un bambino, ma così elettrizzanti e penetranti da riuscire a esercitarne comunque un certo tipo di fascinazione.
L’incontro con Mtv segnò per chi scrive una folgorazione sulla via della distorsione; rispetto ai coetanei, fui subito attratto come in un istinto primordiale da chitarre roventi e dissonanti che stavano ancora scontando l’enorme debito con i Nirvana. E questo era un primo mattone nella costruzione della mia esasperata anemoia per gli anni Novanta. Tuttavia, c’era qualcos’altro che sentivo il bisogno (o semplicemente, il desiderio) di cogliere di quegli anni: il lato più sfaccettato e disimpegnatamente dedito al cazzeggio, così come le tendenze comunque catalogabili in un universo più o meno “alternativo” ma dalle connotazioni più metropolitane e urban-cool rispetto al nichilismo rabbioso e provinciale dell’alternative rock sdoganato con il grunge.



Forse per questo motivo, in quell’estate del 1998, in un pigro e afoso pomeriggio di metà agosto trascorso a casa, a colpire i miei inesperti sensi fu qualcosa di diverso: un video dai colori sgargianti, dominato dalle tonalità arancioni delle tute dei bizzarri protagonisti. C’era un certo nonsense lisergico, c’erano piatti da dj che giravano, c’era un breve frammento di sgranate riprese live, in cui quei corpi si dimenavano a un ritmo che sembrava molto più sostenuto rispetto a quello della musica che scorreva in sottofondo.
Il brano partiva con dei ticchettii sintetici battuti poi in un loop infinito e proseguiva in un’ipnosi che mischiava brusii di fuzz in lontananze riverberate dai vaghi rimandi shoegaze, cadenze da dance in slow-motion, adorabili flow hip-hop dall’indolenza lo-fi, coretti doo-woop sommersi in un’enfasi dream-pop e uno strabiliante refrain soul di un ritornello che declamava: “What the hell am I doing drinking in LA at twenty-six?”. Nel 1998 non ero ovviamente capace di decifrare tutto questo, ma la somma (che poi è ciò che conta) mi arrivava come un fiume in piena e mi rapiva.
“Drinking in LA” fu una mega-hit dei suoi tempi. Costruire un tormentone è un lavoro molto più complesso di quanto si possa credere e farlo con tale raffinatezza di intenti e risultati rientra in un novero decisamente fuori statistica. Facile ricordare oggi i Bran Van 3000 come un classico esempio di one hit wonder; vero è che questo fenomeno era all’epoca particolarmente ricorrente, con innumerevoli casi di artisti capaci di sbancare le chart di mezzo mondo con uno specifico brano, per poi proseguire una carriera in ranghi medi nel migliore degli scenari (si pensi ai tedeschi Liquido e alla loro “Narcotic”), o finire nel dimenticatoio nel peggiore. Tuttavia, questa collocazione è erronea in riferimento all’ensemble canadese capitanato da James Di Salvio e dal producer E.P. Bergen, almeno se la si voglia intendere puntualmente; sarebbe più opportuno parlare infatti di one record wonder. Già, perché “Drinking in LA” è infatti solo un tassello (sicuramente il più rappresentativo) che compone un album straripante, di nome “Glee”.

Uscito nel 1997 in Canada e pubblicato un anno dopo nel resto del mondo, il disco (trainato dal suo singolo di punta) diventa un bestseller in patria, viene accolto tiepidamente negli States, riscuote un successo enorme in Europa. In effetti, “Glee” suona sfacciatamente europeo. Bergen e Di Salvio pescano dai retaggi americani del tempo prevalentemente le componenti riferibili al mondo hip-hop nella sua vocazione più old school e r’n’b con annesse venature funk e soul. I riferimenti all’indie-rock di maniera statunitense ci sono, ma non dominano sul resto, se non a tratti nell’anima più prettamente lo-fi. È comunque soprattutto dall’Europa che i due attingono a mani basse; “Glee” ha infatti un’estetica elettronica che mischia il piglio psichedelico del big beat, l’eleganza del French Touch e il brio tamarro dell’eurodance, le atmosfere decadenti del trip-hop, la trascendenza urbana del dub, le arie eteree e oniriche del dream-pop, un gusto armonico pop-rock dai riferimenti britannici e nord-europei, uno humour punk selvaggio e accelerato, qualche refrattaria divagazione free-jazz.
L’album si muove tra tutti questi elementi con grazia e sofisticazione, ma anche e soprattutto con divertimento compiaciuto e incontenibile. “Glee” è arte dell’alchimia portata ai massimi livelli pop; in un certo senso un album pop “totale”, che qui riconduce, plasma ed esemplifica tutte le menzionate e talvolta più nobili sfumature prese in trattazione. È esagerato e ambizioso, tanto da essere per sua stessa natura irripetibile. Di fatti, l’esteso collettivo dei Bran Van 3000 si sfalderà subito dopo l’esperienza di “Glee”, con Di Salvio e Bergen a portare avanti il moniker verso un destino costellato di produzioni mediocri, assimilabile a quello toccato in sorte agli altri wonderer contemporanei.

Fatto sta che un progetto con le pretese di quello dei Bran Van 3000 poteva rivelarsi solo in un lampo fulmineo; quel fulmine è stato appunto “Glee”, che visto oggi - nel suo giubileo celebrato con un tour reunion in Canada - sembra un perfetto, per certi versi ruffiano ma sempre irresistibile, riassunto degli anni Novanta. O quantomeno, del resto degli anni Novanta, della pop culture di essi figlia diretta e non derivata, al netto delle cronache della disperazione della generazione dei Nirvana prima e (sull’altra sponda dell’oceano e sotto altre fisionomie) dei Radiohead poi.
Inutile specificare che queste riflessioni arrivarono solo parecchio tempo dopo quell’estate del 1998. Avevo solo undici anni e capire non mi interessava; mi bastava farmi trascinare dal vortice sinuoso di “Drinking in LA”, uno dei pochi brani che riuscivo a condividere con miei compagni di scuola. Una delle rare canzoni ad avere il potenziale per piacere a tutti; piaceva ai ragazzini come me perché il video era figo e passava in heavy rotation anche su Dancefloor Chart, piaceva a quelli più grandi che di solito disprezzavano qualsiasi cosa avesse un vago sentore di pop. Un brano capace di inserirsi nei dj-set tanto dei club alla moda quanto dei centri sociali. E in effetti per tutti gli anni della mia adolescenza e giovinezza l’ho sentita ripescare spesso nei più disparati tipi di serate, quasi sempre a darsi un tono nostalgico in fase di decompressione finale. Non avevo tuttavia mai ascoltato interamente “Glee” fino al giorno in cui ne trovai una copia in un negozio di vinili.
Appoggiata la puntina del giradischi, la prima sensazione fu proprio quella di assistere a una parata di quei pezzi del mio immaginario degli anni Novanta che non ero riuscito a mettere organicamente insieme, sebbene con il senno di poi avessi ormai imparato a conoscerli musicalmente meglio.

“Glee” è un album lungo (diciassette tracce, che arrivano a diciannove nella release internazionale) ma mai noioso, mai ridondante, eppure mai incoerente. Salta da un genere all’altro, coniugando il tutto con grande maestria di sintesi della complessità. Coinvolge, diverte, a tratti esalta.
Parte con un gioco di sampling (“Gimme Sheldon”) in ovvio ossequio a DJ Shadow e prosegue con la sghemba danza lo-fi di “Couch Surfer”, che lascia immaginare i Pavement intenti a darsi all’hip-hop sotto effetto di un trip acido, in una suggestione da hangover dopo una notte in interrail. Così, più avanti nella tracklist, la fenomenale rendition di “Cum On Feel The Noize” potrebbe essere il prosieguo ideale, la perfetta colonna sonora del ritorno da quel viaggio, nell’ultima riserva di adrenalina che cede il passo alla nostalgia, vestendo di un sontuoso abito britpop ruvidamente elettrificato e dalle seduzioni dreamy un brano originariamente concepito e suonato nell’appariscente confezione glam degli Slade e dei Quiet Riot.
“Problems” è l’encore a bpm triplicati di “Drinking In LA”, più cupo, irrequieto e convulso, “Forest” e “Rainshine” fondono in maniera travolgente dub e trip-hop con ritornelli rock saturi ma sempre pregni delle atmosfere sognanti donate dalle voci femminili. L’hip-hop più puro fuoriesce nelle capriole funkeggianti di “Old school” e con “Afrodiziak” (in duetto con i Gravediggaz). “Une Chanson” potrebbe essere un brano degli Air, “Lucknow” torna a solleticare il trip-hop in un soffuso spoken word dalle eco inverse. In mezzo, c’è tutto e il contrario di tutto, dai fugaci deliri strumentali che strizzano l’occhio tanto a fiammate di psichedelia elettronica quanto a destrutturazioni jazzistiche, alle tracce squisitamente pop, che vanno persino a invadere terreni folk e anti-folk (e anche in questo caso si torna a riferimenti più tipicamente americani).

“Glee” è l’apoteosi della totalità panstilistica. Un album da ascoltare o da far girare a una festa. È in effetti esso stesso una festa, con tutti i suoi umori dissolti nel casino. Deve tutto il suo successo a “Drinking In LA”, ma forse quel successo è stato – a ben vedere – anche minore di quello meritato.
È una fotografia nostalgica dei Nineties, scattata sul finire della loro corsa, che ce li mostra forse in una posa un po’ patinata e spaccona, con i pantaloni larghi e il gel nei capelli, un giradischi da scratch e una chitarra elettrica a buon mercato, ma in fondo così come è bello ricordarli o immaginarli. Poco importa quanto quella fotografia sia o meno effettivamente veritiera di ciò che realmente sia stato. Tanto basta per raccontarci una storia, che ognuno farà poi sua a modo proprio. La mia è quella di un profondo senso di nostalgia per quell’epoca mai vissuta in pieno, per quel decennio in cui avrei voluto avere dieci anni in più e che in un’inconsapevolezza ingenua mi piace filtrare in “Glee” dei Bran Van 3000.
Probabilmente non è un album che si possa definire “influente”. In fondo, non ha cambiato proprio nulla del corso degli eventi. Ma ha riassunto e racchiuso tante cose. E se i parossismi delle ondate di “retromania” arriveranno, per ovvia ciclicità, a rispolverare stili e tendenze degli anni Novanta, “Glee” non sarà magari un album da antologia fondamentale, ma potrà essere un ottimo Bignami.

Discografia

Pietra miliare
Consigliato da OR

Bran Van 3000 su OndaRock